CRITICA
Riconsiderare la pittura
Massimo Bignardi
Il valore della pittura come dato da riconsiderare, è quanto emerge, con
una certa evidenza, osservando e attraversando gli stand, allestiti nelle
fiere d’arte contemporanea di questi ultimissimi anni. Lo è, almeno per
quanto riguarda la pratica, nelle giovanissime esperienze dell’arte dei nostri
giorni che lo manifestano con chiarezza, riflettendo anche il clima di
una insofferenza sociale, entro la quale si iscrive una certa propensione
a guardare al passato. V’è ora la necessità di mettere in atto quella che
Bauman, con un neologismo, ha definito ‘retrotopia’, tendere cioè verso
il passato, avvertito come «un itinerario di purificazione dai danni che il
futuro ha prodotto ogni qual volta si è trasformato in presente».
La pittura, il suo esercizio guardato come tale, diviene un atto di liberazione
dal monopolio di una concezione dell’arte che, in nome di una
presunta ‘avanguardia’, acquisita con la complicità di una critica autoreferenziale,
ha tradotto le discontinuità e le fratture, in funzione all’establishment
culturale ed economico che oggi regola la scena dell’arte e dei
mercati internazionali.
La pittura, quella cioè che si è sviluppata all’indomani dei grandi murales
messi su dagli anonimi autori dei graffiti urbani degli anni settanta, parla
un linguaggio che porta con sé sia il tentativo di riprendere la capacità di
tradurre in forma un pensiero o un pensare figurativo, sia quello di comprendere
pianamente l’apporto che i giovani delle banlieue hanno dato al
linguaggio dell’arte. Linguaggi che portano una carica di novità per il loro
farsi processi di una comunicazione anarchica, che si pone in conflitto
rispetto all’esclusione sociale ma anche geografica che vivono le aree periferiche,
poste al confine della città.
Dai dilatati e poco attendibili registri di queste pratiche pittoriche, Michelangelo
Salvatore ha ripreso la duplice valenza di un’esperienza antica
quanto l’uomo: da una parte la sua capacità di farsi immediata dichiarazione
di un dato offerto alla percezione, dunque, di rispondere alla sensibilità
con la quale lo sguardo conosce la realtà e le cose che la abitano;
dall’altro sentire il respiro che accompagna l’espressione, affidandola
all’interpretazione del colore. Espressione da intendersi come manifesta
esperienza dell’individualità, in opposizione ad un mondo che spinge alla generalizzazione, alla globalizzazione, alla perdita di quel potenziale rivoluzionario
che è la cifra di ciascun individuo.
Michelangelo, in particolare nelle opere realizzate in questi ultimi dieci
anni, insiste su un tema, proprio della pittura e della sua storia: il ritratto.
Un tema inteso in prima istanza quale dettato affidato ad un segno carico
di una certa immediatezza, vicino per certi versi ai primi writer, ove è il
segno/scrittura ad emergere in una sintesi spesso allusiva ed ironica. È
quanto si osserva in una serie di dipinti, i sognatori, che reiterano un’immagine
esemplificata del profilo di un uomo che l’artista estranea dalla
realtà. In seguito, nei lavori recenti, Michelangelo ha scelto di riconsiderare,
ulteriormente, il valore del ritratto, partendo dal dettato espressivo
che è proprio del colore. Riprende i suggerimenti che Matisse e Derain,
condivisero con altri pittori attivi nella Parigi dei primi anni del XX secolo.
L’idea è quella di mediare tra lo sguardo e l’intuito servendosi dell’energia
che il colore possiede e con il quale distorce la figura. Infine trova un ulteriore
varco nell’idea di movimento che fa fluttuare la figura nel campo
pittorico, riprendendo una pratica compositiva che Andy Warhol aveva
esplicitato nella serie dei mitos. Michelangelo rifiuta, però, il fondo fotografico
sul quale l’artista statunitense interveniva: la sua è una pittura/
pittura, piatta ma densamente data dalla gestualità della mano.
Accogliere la fotografia nella sua totalità, in pratica condividere la lettura
che il fotografo fa della figura aggiungendo ad essa parte della sua personalità,
non era e non è nell’indirizzo che Michelangelo vuole dare a questa
galleria di volti del nostro presente. Attinge le immagini dal dizionario
iconologico della mondanità culturale, quindi dai magazine, dai giornali,
da internet, da facebook e dai social in generale; lo fa senza seguire una
precisa logica. Direi seguendo affinità compositive, una certa somiglianza
delle forme e il loro rapporto con il rettangolo – quasi sempre in verticale
– della tela.
Inizialmente la sua attenzione si concentra sul colore, senza, però, piegare
il ductus pittorico al compiacimento formale; anzi spinge quanto più
possibile ad appiattirlo in una stesura à plat (cioè confinandolo in una
precisa e ben sintetica forma piana) e che lo porta, dopo le prime prove –
penso al ritratto di Christo, del 2017 – a rinunciare a qualsiasi accentuazione
espressiva dello sguardo. Lo fa portando all’estremo la negazione,
fino ad invertire le parti, affermata da Gauguin: «Io chiudo i miei occhi per
poter vedere».
Michelangelo svuota completamente il bulbo oculare, dell’iride e della
pupilla: nega lo sguardo pur lasciando la mandorla che disegna l’occhio
nel suo insieme, come una sorta di varco d’ingresso ad una cavità imperscrutabile.
Qual è il motivo di una tale scelta? Va detto subito che
prerogativa del ritratto è stata da sempre quella di cogliere, innanzitutto,
lo sguardo; meglio ancora la sua disponibilità ad accompagnarci non al
riconoscimento fisiognomico della figura raffigurata sulla tela o sul foglio
di carta o immolata dallo scatto fotografico, quanto al suo carattere, alla
personalità. Michelangelo lo spiega, dunque, servendosi di richiami alla
statuaria greca, in particolare ai bronzi affiorati alla contemporaneità dalle
acque del Mediterraneo. Direi, inoltre, che su tale scelta pensa anche il
Picasso dei nudi tondeggianti che precedono le demoiselles.
Nega lo sguardo e quindi la forza espressiva che pone il volto a contatto
con gli altri, cioè quel ponte che ci consente di avvicinarsi ai velati tracciati
della personalità, a quanto la parola nasconde.
Michelangelo Salvatore: pièces uniques?
Marcella Ferro
Breve non è affatto il passo dal ritrarre individui esistenti o esistiti al ritrarre
figure irreali come il Sognatore, così chiama Michelangelo Salvatore
il personaggio che quasi ossessivamente ripete in una serie di dipinti
di media grandezza. Un volto di profilo che si staglia netto, nel suo tratto
deciso e colato del pennello, su fondi monocromi e matti stesi su supporti
cartacei, di tela o lignei. Un volto, beffardo nella sua espressione, che
pare quasi snobbarci non mostrandosi frontalmente, eppure ci sbircia,
annullando ogni senso della prospettiva reale, forse nel ricordo lontano
dei ritratti di Dora Maar di Picasso, volgendo verso noi il suo grande
occhio. Un occhio inquietante, svuotato della pupilla, bello e temibile al
pari di un buco nero, che trascina ogni dettaglio o traccia figurativa, fatta
eccezione per qualche raro fiore sinteticamente accennato in alcuni lavori.
Si tratta ancora di un volto a tratti ironico, nella sua combinazione
semplice composta di un naso grande e ricurvo, della sua testa piatta, di
labbra sottili, serrate e poggiate direttamente sul collo. Volti che con il
loro galleggiare in cieli senza nuvole, fanno eco all’innocenza dell’infanzia,
ai giochi dei bambini e ai loro disegni così lineari eppure così densi di
simbologia e significati. Quello che fa Michelangelo può ingannare i sensi
e farci pensare a un semplice passatempo, un mero esercizio di stile, deviando
il nostro pensiero dall’idea che creare sia la peculiarità dell’artista
e che dove non c’è creazione finisce col non esistere nemmeno l’arte.
All’opposto Salvatore è un autentico creatore, non soltanto un essere che
mostra le doti pratiche ma è un uomo che ha saputo dare un senso e ordinare
in virtù del loro fine, tutta una serie di attività dalle quali nascono le
opere d’arte. La visione diventa l’incipit del fare dell’artista in questione:
vivere é al contempo vedere, primordiale e faticosa operazione creativa.
La deformazione del volto del Sognatore o, meglio, la sua semplificazione
è il frutto di una catalogazione di immagini che appartengono alla vita
di tutti i giorni, e che subiscono una mutazione generata dalle abitudini
acquisite, in un momento storico come il nostro dove i vari social come
Whatsapp, Instagram o Facebook fanno crescere il loro giro d’affari grazie
alle immagini, quelle prodotte da tutti noi, improvvisati fotografi dal
dubbio gusto, ma che di fatto incrementano una valanga di icone bell’e
fatte che sono poi acquisite, nell’ordine visivo, come pregiudizio dell’ordine mentale. Michelangelo, quindi, opera con grande coraggio e con enorme
sforzo per liberarsi di questo bagaglio precostituito, coraggio e fatica
indispensabili per tornare a osservare il mondo come se lo si vedesse per
la prima volta, come, cioè, quando si era neonati. Azione necessaria al
fine di permettere all’artista di esprimersi in modo originale, vale a dire
personale, riconoscibile.
Di certo Salvatore non è un innovatore, essendo più un rinnovatore, ovvero
utilizzando gli elementi principali di correnti già storicizzate come il
Fauvismo o la Pop Art, sia con la serie dei Sognatori che quella dei Piedi,
tenta di annullare il desiderio di complessità dell’osservatore ponendosi
in modo quasi sgradevole mediante la purezza del disegno e del colore e
sfidando l’artificialità della produzione figurativa più elevata.
Più che dipinti, i suoi appaiono come collage, nei quali ritagli di frammenti
di colore, incollati su una superficie, reinventano un nuovo linguaggio
rappresentativo, ricco di effetti inaspettati, in cui le forme bidimensionali
si sintetizzano fino a diventare metafora, emblema, riflesso lontano, quasi
astratto, della realtà. Lo spazio non è più concepito tradizionalmente, non esistono misure o proporzioni percepibili, a prendere vita è un mondo
immaginario, inesplorato, dove a dominare serenamente è la libertà
delle linee e dei colori, tra rapide e emozionanti suggestioni.
Se i volti del sognatore sono fermi e monumentali, i piedi, contrariamente,
paiono muoversi sulla superficie instillando il dubbio che si tratti di
piedi o impronte come in un gioco fra positivo e negativo, fra statico e
dinamico, fra onirico e reale. Parti di un corpo che si lascia portare, che
sceglie il viaggio come esplorazione di sé stessi, piedi da amare e – come
Erri De Luca compone in versi - esaltare “perché non sanno accusare e
non impugnano armi. Perché sono stati crocefissi. Perché anche quando
si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio
non meriti l’appoggio. Perché, come le capre, amano il sale. Perché
non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire
scalciano in nome del corpo contro la morte”.
Anche per questa serie, il colore, contribuisce a descrivere la luce, non
però, in quanto dato fisico, ma in quanto espressione dell’unica luce effettivamente
esistente, ovvero quella della mente dell’artista. Ogni momento
storico vive sulla scorta di una propria luce intrinseca, di un suo
particolare rapporto con lo spazio e un bisogno tangibile di sentirsene
padroni. Si arriva ad esigere un possesso totale di quest’ultimo, necessità
ben espressa dall’utilizzo del colore che potrà tradurre l’essenza di ogni cosa e rispondere all’intensità dell’impatto emotivo; ma disegno e colore
non sono che una suggestione, e in passato servivano a dare l’illusione
allo spettatore di poter possedere le cose ritratte, ma oggi sono utilizzati
dall’artista per rendere afferrabili le emozioni.
Le ricerche di Salvatore non sembrano ancora arrivate a un limite. I Piedi
e i Sognatori sono ciò che di più diretto e semplice abbia trovato per
esprimersi. Conosce il segno di un determinato oggetto dopo averlo studiato
a lungo, affinché in una composizione una cosa come un fiore, un
piede o un volto diventino orma nuova e che tuttavia facciano parte di
un insieme conservando la propria forza. Così fuori dalla composizione
per cui sono stati creati quelle tracce non agiranno più. Pertanto, non c’è
rottura fra i ritratti e queste serie iconografiche, non c’è un vero prima e
dopo, se non temporale. L’artista ha solo raggiunto, con più assolutezza e
con maggiore astrazione, una serie di forme decantate fino all’essenziale,
conservando dell’oggetto il segno che è sufficiente e necessario a farlo
esistere nella sua struttura e per l’insieme in cui lo ha concepito.
Sono, queste due serie su citate, talmente autobiografiche che si possono
leggere come pagine di un diario intimo e personalissimo dell’autore,
come frammenti di una memoria che riaffiora, densa di una emotività
fortissima che costringe il pittore a non perdersi nella trascrizione di futili
dettagli ma solo di piccoli tratti a rappresentazione di quel fiume denso
che è la vita.